IL DISADATTAMENTO DELL’IO
La domanda sull’identità ovvero sul “chi sono io” è una delle domande più difficile a cui rispondere richiedendo, di fatti, un atteggiamento introspettivo, un passare dal “di fuori” al “di-dentro-di noi” e spesso una volta “dentro-di-noi” ci sembra di essere «nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita» (Inferno, I canto, vv.1-3).
Siamo “una selva oscura” a noi stessi, la vita è divenuta un inferno, alienante, senza senso, noiosa e angosciante: è la “crisi dell’io” come “disadattamento” a noi stessi e quindi di conseguenza incapacità di dialogare e relazionarci agli altri da cui anche la “crisi del noi”.
Credo che le radici di questa “crisi di identità” risieda nella tendenza arcaica di passare dal molteplice all’unità o meglio all’uno inteso come ἀρχή, “principio, origine”, termine il cui uso risale ai primordi della tradizione filosofica e biblica inteso come ciò da cui derivano tutte le cose.
Già Platone parla di un “principio del divenire” e di un “principio del movimento” e Aristotele adopera il termine archè come equivalente di “causa prima”. Biblicamente nel libro della Genesi si legge “in principio Dio creò il cielo e la terra” e nel vangelo di Giovanni si afferma che “in principio era il verbo”.
Che rapportò c’è tra la ricerca filosofico-teologica dell’uno e la crisi d’identità?
Alla domanda “chi sono io” cerchiamo sempre di rispondere in modo univoco aggrappandoci ad un impacciato e a volte disperato tentativo di autodefinirci come “un”, ma senza riuscirci: ecco la crisi dell’io, non sappiamo chi siamo e quindi non sappiamo dove andare e cosa fare e non riuscendo più a trovare una ragione per cui vivere e morire fa capolino nella nostra vita “un ospite inquietante” (U. Galimberti), il nichilismo.
Per rispondere alla domanda “chi sono io” bisogna partire dal molteplice per poi risalire all’uno-identità e non viceversa, bisogna cioè passare dall’idea boeziana di persona come “sostanza individua di natura razionale” a quella relazione secondo cui l’io è frutto del noi, della cultura in cui siamo situati, delle esperienze che facciamo, assumendo dunque una “postura esistenziale” e non “metafisica”.
Noi siamo situati e gettati nel mondo secondo una “lotteria della nascita” (J. Rawls) e facciamo esperienze. Le nostre esperienze di vita, culturali, esistenziali sono l’archè della nostra identità e non viceversa. “Io sono – contemporaneamente- tante cose” e mi strutturo “vita facendo”.
L’io deve essere inteso dunque come molteplicità mutevole e dinamica del nostro “esser-ci” che è la nostra “identità esistenziale”, motivo per cui la mancanza di relazioni ed esperienze, la “crisi del noi”, porta alla “crisi nichilistica dell’io” ovvero al “trapassamento dell’essere nel nulla” (E. Severino).
Se il nichilismo è segnato dal contraddittorio divenire, trapasso dell’essere nel nulla, il fondamentalismo politico, religioso, economico ecc, ecc. segna il divenire, il trapasso “dell’essere identità come esserci” nell’“essere immobile, indivisibile, finito” ponendo di fatti la persona fuori da una dimensione storico-esistenziale, privandolo dalla capacità di autodeterminazione e di scrivere il proprio destino, la propria storia.
L’uomo di oggi posto di fronte a un bivio, che vede da una parte il nulla nichilista e dall’altra parte l’immobilismo fanatico, non potrà che dire “no alla vita” in quanto non riconoscendosi e disadattato a se stesso, o non trova più un motivo per cui vivere e morire o questo gli viene imposto.
Oggi la “crisi dell’io” è determinata dalla “crisi del noi”, dall’incapacità individualista di relazionarci agli altri nel mondo: il fondamento metafisico del nostro esserci, del nostro “si alla vita” è la relazione-mondana ed è a partire da queste relazioni ed esperienze che scriviamo la nostra storia e ci-auto-determiniamo con gli altri.
Nuccio Randone